…E LUIGI MENEGHELLO PROIETTA L’IMMAGINE DELLA “STRADELLA (OGGI VIA MARANO) CHE COMINCIA VICINO A CASA NOSTRA…VERSO LA CAMPAGNA FITTA, FUORI DELLA GEOGRAFIA E DELLA STORIA”.
La storia che la nostra vecchia foto racconta, senza andare troppo indietro al tempo in cui l’abitazione è stata costruita, può essere racchiusa tra il 1975 quando è stata demolita l’ultima filanda di Malo che si trovava nell’attuale piazza De Gasperi, e gli anni ’50 quando arrivarono i primi segni della ripresa economica. In pratica era circondata da Via Loggia e dalle future Via Marano e Martiri della Libertà. La casa, demolita all’inizio degli anni ’60 la stava assalendo il progresso che intendeva venire incontro alle esigenze estetiche di arredo urbano, per rispettare le condizioni igienico-sanitarie, che un centro storico in rapida espansione non poteva ignorare, mantenendo al proprio interno un mondo che aveva fatto il suo tempo. Ed erano quelli i “Tempi e luoghi della seta e dell’argilla” legati com’erano alla terra e al lavoro che essa comportava.
Un’abitazione, non propriamente un rustico, ma certamente una casa rurale in piena regola, sulla linea di confine tra quello che eravamo soliti, allora, indicare come il centro del paese e l’inizio “di una landa sconfinata di campi e fossati e colture” (cap. 13 Libera nos, 1963).
A quel mondo si sarebbe data una sopravvivenza di testimonianza storico-culturale istituendo nel 1976 il Museo della Civiltà Rurale del Vicentino nella Cantina sociale di Malo.
C’è un personaggio di un racconto di Tolstoj, faceva il calzolaio, e siccome la sua bottega aveva le finestre quasi al livello della strada, bastava che guardando fuori, seguisse il camminare dei passanti per riconoscere i propri clienti.
Non era proprio così la casa della foto, ma era difficile dissociarla dall’immagine, bassa com’era e come schiacciata contro terra, di un’isola destinata ad essere cancellata, e per più di un motivo.
Bastava superare l’ampio portone d’ingresso per trovarsi a scendere su un pavimento di terra battuta che portava sulla destra, direttamente alla corte, segnata dalle ruote dei carri con i solchi spesso pieni di fango e da quanto gli animali lasciavano in giro.
La pendenza spiega anche l’atmosfera di vaga penombra e umidità che si respirava nella grande cucina, a sinistra, tanto vasta che serviva anche per allevare i bachi da seta e, del resto, i fondamentali c’erano tutti: la cucina economica a legna, il focolare, la moscaróla (la vivandiera metallica anti-mosche), l’acquaio in stile naturale lastra di pietra antica appena scalpellata (il seciàro), la madia con l’assillo sempre che dentro si trovi poco o niente; la vita vi si svolgeva niente di più comune, niente di più quotidiano.
La stalla la si poteva infilare diritta perché era proprio davanti al portone d’entrata, era l’ambiente più ricercato per far fronte alle lunghe sere invernali e chiudere le giornate nonni e nipoti.
Il giro continua con l’orto, lo spettacolo della sieresàra (il ciliegio), el punàro (il pollaio), el stalóto del màs-cio (porcile), del musso (asino) e del cavàlo.
Non poteva mancare, il più lontano possibile, là in fondo, protetto da frasche che davano isolamento, il cesso, che con i suoi risucchi dava accoglienza alla fauna più variegata. Non è da escludere che, abitando a cento passi da qui, lo scrittore maladense abbia preso spunto per la sua fenomenologia dei luamàri.
Cosa rimane di tutto questo?
L’effigie di un manufatto, i ricordi di chi ci ha abitato (Cecilia, Ippolito, Claudio Berlato) quello che ogni trasloco lascia dietro di sé, una cultura del riciclo dato che sono state riutilizzate le antiche travi e conservate le legature di ferro per fermare le crepe sui muri, per non parlare della saggia pazienza, delle buone prove coltivate osservando i cicli della terra con le stagioni che le fanno da padrone, i consigli dei padri e la memoria di un episodio della Resistenza a Malo consegnato al marmo della lapide che ora si trova all’ingresso laterale (prospetto nord) della ex Chiesetta di San Bernardino.
Terenzio Altini